A tu per tu a cura di Nadia Scappini – bottega portosepolto

Qual è il seme da cui è germinata la tua poesia?

Ho esplorato con passione e dedizione diverse forme d’arte. Guardando la mia vita a ritroso, la creatività è sempre stata la mia ancora di salvezza. Ho iniziato con il teatro, sono passata al cinema, che è poi diventato il mio lavoro, e dodici anni fa ho cominciato a dedicarmi alla poesia.

La mia voce poetica è nata in una crepa ed è germogliata nel momento in cui ho capito quanto la poesia fosse un mezzo straordinario per guardare dentro l’abisso. Fino a quel momento avevo usato le immagini per esprimermi, ma a un certo punto ho avvertito che non bastavano, che non erano più sufficienti per dare voce a ciò che vedevo.

Così ho iniziato a scrivere. Per la verità, non pensavo di comporre poesie; per me erano solo “osservazioni casuali”. Annotavo ciò che vedevo e che mi restava dentro, come una spina che mi tormentava finché non riuscivo a estrarla, traducendola in parole.

Da sempre sono una lettrice appassionata, anche di poesia. Per rispetto ai tanti autori che ho letto non osavo definire “poesia” ciò che scrivevo. Scrivevo senza aspettative, per necessità, ma è proprio così che ho scoperto che attraverso le parole potevo, se non comprendere, almeno illuminare l’abisso.

La mia è una poesia del corpo, saldamente ancorata allo sguardo. All’inizio scrivevo quando qualcosa mi colpiva; in quel periodo ero così “spellata” che ad ogni angolo qualcosa entrava nei miei occhi e lavorava in silenzio. Fino a quando non scrivevo.
Attraverso la scrittura la ferita si è cauterizzata; è diventata altro. La scrittura poetica è uno strumento straordinario, capace di creare nuovi ‘oggetti’ mentali che si collocano in un punto di contatto unico tra la realtà e l’inconscio, tra ciò che è esterno a noi e ciò che è profondamente intimo e soggettivo. Oggi scrivo con maggiore consapevolezza: lo studio e la ricerca hanno trasformato il mio approccio, rendendolo più strutturato e riflessivo.

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Corpi estranei: nota di lettura di Franca Alaimo

Antonella Sica, Corpi estranei, Arcipelago Itaca Ed., Gennaio 2025

La radice etimologica di “estraneo” indica chiaramente il sentirsi fuori da, come uno che piombi all’ improvviso in una realtà altra in cui nessuno lo riconosca ed egli stesso non riconosca nulla come suo.
Quando questa percezione assedia anche chi vive in luoghi e fra persone conosciute, la lacerazione della propria integrità psichica non può essere che devastante.
È quanto esprime in versi densi, costruiti con grande perizia tecnica e addolorati echi sonori inseguiti fra assonanze, allitterazione, iterazioni,
Antonella Sica nella sua recentissima silloge: <Corpi estranei>.
Il testo di apertura sulla morte della madre con il suo doloroso assillo segna da subito il tono dei successivi, pervasi dalla percezione di un’ assenza relazionale con gli altri, a cominciare dai familiari ancora vivi che sembrano abitare le stanze della casa comune come “gabbie”, isolati, irraggiungibili, perfino, a volte, irritanti, come la nonna che trascina le pantofole o il padre che ingurgita cibo e vino come per “allattare” il dolore.
Tutti sembrano cercare un senso senza trovare altro che silenzi vuoti.
Una pausa si introduce a volte in così vasta, disperante mancanza, ed è la presenza delle cose solo nel momento in cui vengono separate da ogni sovrastruttura metaforica mostrandosi quali sono. Il lettore ha quasi la sensazione di trovarsi di fronte a dei quadri verbali, ormai fissati nella loro immobilità: si tratta in genere di interni, che fanno pensare a certi dipinti di Hopper (finestre e tende che separano dall’ ambiente esterno), o di descrizioni di cose o luoghi attente ai dettagli: “un cumulonembo orlato di luce / sul lungomare capovolto / capriole di vento, festa di lampi”, in cui prevale l’ atto puro del guardare, scisso da ogni tentazione filosofica, quando, come scrive la poeta, la gioia sta “nelle gambe” che, camminando, le fanno “gli occhi sazi / come chi non cerca niente”.
È il momento in cui parla quella bambina protagonista della terza delle cinque sezioni che strutturano la silloge, e che è facile identificare con la poesia stessa, se si colgono bene gli indizi seminati tra i versi: “il suo corpo è nuda cantilena”; “un nido di parole che scopro al mattino”; “satura l’ aria / di filastrocche in rima baciata”, anche se questa bambina nel testi che chiude la seconda sezione trascina “fra le mani una bambola rotta”, alludendo, dunque, alla stagione infantile. Come dire che la poesia appartiene all’ infanzia (non manca, del resto, nella silloge la presenza di bimbi che giocano) e che bisognerebbe ritrovare quella meraviglia ormai “rotta”.
Sebbene, insomma, l’ atmosfera che si respira all’ interno dei versi, sia perlopiù cupa, dolente, l’ autrice sparge ogni tanto tracce di luce, di stupore, perfino di incanto, perché ad essi nessun poeta può sottrarsi, se considera l’ azione del versificare un atto di per sé riparatorio, non fosse altro che per la ricerca della musica che fanno le parole combinate sapientemente insieme.

Corpi estranei: nota di lettura di Antonio Corona su Il tasto giallo

CORPI ESTRANEI è la recente silloge di Antonella Sica, edita da Arcipelago itaca Edizioni (2025), nella collana “Mari Interni” diretta da Danilo Mandolini e con prefazione a cura di Camilla Ziglia. L’opera, come dichiarato in copertina, è stata vincitrice della XII edizione del Premio InediTO – Colline di Torino. Si articola in quattro sezioni: Corpi estraneiHo una bambina sulla schienaLa condanna alla luceDove nessuno chiama, dove è possibile distinguere due parti da un punto di vista dei contenuti affrontati dall’autrice. Le prime due infatti, si focalizzano sulla sua infanzia popolata da personaggi ingabbiati nella loro identità, mentre nelle ultime la Sica traspone il suo sentire al di fuori della casa natale e assorbe luce, note e vibrazioni di un mondo che va scoprendo e con cui interagisce talvolta in una dimensione onirica e di fantasia.
Un libro decisamente intenso e coraggioso fin dalla prima pagina, che lascia trasparire le fragilità umane e la complessità dei rapporti interpersonali, la volontà di cogliere il bello in ogni luogo e momento dell’esistenza, seppur crudele.

Una casa e quattro importanti figure familiari (madre, padre, nonna e fratello) sono i protagonisti della prima sezione, se si esclude una quinta presenza: la voce narrante dell’autrice che osserva, come distaccata, il succedersi degli eventi. Cosa può generare in una famiglia la perdita di una persona cara, e ancor di più in un bambino? “madre / che sei andata via / come si spegne la luce / nella stanza di un bambino”. E’ così il focolare domestico diviene “una casa divisa in gabbie / perimetri di fiato e dolore / corpi estranei cuciti dal sangue”. I legami di sangue diventano sutura per una scomparsa improvvisa, per un dolore difficile da gestire, ma tutto resta immobile nelle parole descrittive della Sica. Ognuno mantiene il proprio posto a tavola, mentre “il corpo del padre stipava / di cibo la sacca ventrale” e una nonna con “le ciabatte sgraziate nel corridoio / strisciando lucidavano il pavimento”. Solo “il corpo del fratello / non faceva rumore” così come “lo spettro” di una bambina ammutolita e solitaria, affranta dal dolore che incide nella memoria momenti e figure, attimi di luce e buio che segneranno la propria vita e, perché no, anche la scrittura. Così le “persiane lame di luce / tagliavano la gola alla domenica” si vive imprigionati nella casa del ricordo, in mura intrise di dolore e di sconfitta. Sarà il gioco a portare in luce una bambina con la sua bambola, un istinto materno che si fa strada già in età fanciulla e ci regala l’immagine della giovane autrice che con coraggio e verità, condivide una parte importantissima della propria infanzia. La “bambina sulla schiena” dondolarespiracanta: questi i tre verbi scelti dalla poetessa per ricordare il suo intimo momento, per tramutare il dolore in poesia. Le due prime sezioni si chiudono, imprimendo certamente una potente spinta emotiva alla lettura. Strofe contenute e spesso ritmiche donano dolcezza e quasi una serena accettazione del dolore, nonostante la durezza di alcuni termini e la descrizione chirurgica degli eventi. Il testo poetico si trova così ad essere asciutto e snello, senza sbavature o smielature sentimentali, la cura della parola diviene protagonista nell’efficacia comunicativa e di espressione.

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Anteprima di Corpi estranei su DI SESTA E DI SETTIMA GRANDEZZA di Alfredo Rienzi

di Camilla Ziglia

Questa raccolta distilla come alambicco gocce di paradosso: la sensazione dell’estraneità promessa dal titolo è attinta proprio dal suo opposto ossia dal quotidiano e da ciò che più si crede affine e familiare. Colpisce che addirittura l’io lirico risulti estraneo a se stesso, nella distanza siderale con cui rilegge il vissuto. Antonella Sica percorre il campo di ricerca del lontano nel vicino in diverse direzioni suggerite ancora dal titolo (“corpi”) e secondo i tracciati dei capitoli: i corpi dei quattro membri di una famiglia, l’alter-ego o la coscienza in corpo di bambina, il corpo dell’io lirico-personaggio e quello della casa con le sue ambientazioni note, i suoi affacci consueti e sull’altrove.

In apertura ex abrupto la deflagrazione: l’ineludibile corpo perduto della madre, la tinta della mancanza che si sfuma su ogni altra. Fanno seguito i corpi dei personaggi che si muovono per casa con pesante immanenza, annotati come rigorosamente esterni all’io poetico, ugualmente traumatizzati dal lutto ma incomunicanti. Con lucidità vengono tratteggiati nelle piaghe croniche della loro esistenza e con disincanto fermo riverberati anche dal fastidio che recano, dal dolore che inconsapevolmente suscitano. L’insofferenza prude ad esempio al ciabattare strascicato di una nonna che tanto più inquieta quanto più se ne ama e odia la fragilità (pur in contesto diverso, mi ricorre il “cuore appena franto dal suo bene” di A. Gatto, ma ben più esplicite nella psicologia dei rapporti emergono le letture della poesia femminile americana di Anne Sexton). Questa prima sezione restituisce l’inconfessabile forma scavata nell’amore da altri sentimenti, anche quelli che si vorrebbero fuggire o reprimere e che tuttavia si impongono, come il vincolo del buonumore nelle feste comandate che nessuno può più concepire come gioiose (Persiane lame di luce / tagliavano la gola alla domenica / l’arrosto tormentava l’aria / con la sua pretesa di festa).

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