Con il corpus poetico in commento, Antonella Sica, attingendo ad un immaginario che eleva a correlativi oggettivi gli archetipi del mito, sviluppa, per il tramite d’un fil rouge che lega i topics rinvenibili nella linea diegetica, la sua peculiare ontologia dell’essere-donna. La Nostra, dunque, consegna al lettore una poetica fortemente declinata al femminile, non tanto o comunque non solo per agitare in forma rivendicativa la vexata quaestio del dominio del maschile sul mondo, quanto per invenire i tratti costitutivi di un’identità, appunto femminile, di cui fare cognitio ex se, al di là, quindi, della retorica giustapposizione uomo-donna.
Certo, nella prima sezione dell’opera, titolata <<L’ira notturna di Penelope>>, la Sica non cela il suo velato J’accuse nei confronti d’un sistema di pensiero che ancora oggi avalla il ruolo subalterno della donna (cfr. p. 35, <<ho vissuto già / cinquanta giorni da pecora / ruggendo come un leone>>). Ma la nota di biasimo, nell’intentio dell’autrice, è funzionale all’acquisizione d’una consapevolezza da cui solo può principiare ogni forma di affrancamento e, quindi, di recuperabile libertà. È quanto si evince dalla lirica incipitaria di p. 2 che dà il titolo all’opera, ove <<l’ira>> scaturisce dalla percezione di avere addosso un habitus che si riconosce posticcio, non proprio, ma di cui la poetessa è consegnataria avendolo ricevuto – quasi in dote – da <<mia madre, (…) mia nonna>> (cfr. ibidem), id est per traditio, a guisa di <<Pelle su pelle cucita / troppo stretta ai fianchi / (…) / che vive la mia vita>> (cfr. ibidem); habitus da disfare <<Ogni giorno con pazienza>> (cfr. ibidem), da scucire quotidie punto per punto.
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