di Camilla Ziglia
Questa raccolta distilla come alambicco gocce di paradosso: la sensazione dell’estraneità promessa dal titolo è attinta proprio dal suo opposto ossia dal quotidiano e da ciò che più si crede affine e familiare. Colpisce che addirittura l’io lirico risulti estraneo a se stesso, nella distanza siderale con cui rilegge il vissuto. Antonella Sica percorre il campo di ricerca del lontano nel vicino in diverse direzioni suggerite ancora dal titolo (“corpi”) e secondo i tracciati dei capitoli: i corpi dei quattro membri di una famiglia, l’alter-ego o la coscienza in corpo di bambina, il corpo dell’io lirico-personaggio e quello della casa con le sue ambientazioni note, i suoi affacci consueti e sull’altrove.
In apertura ex abrupto la deflagrazione: l’ineludibile corpo perduto della madre, la tinta della mancanza che si sfuma su ogni altra. Fanno seguito i corpi dei personaggi che si muovono per casa con pesante immanenza, annotati come rigorosamente esterni all’io poetico, ugualmente traumatizzati dal lutto ma incomunicanti. Con lucidità vengono tratteggiati nelle piaghe croniche della loro esistenza e con disincanto fermo riverberati anche dal fastidio che recano, dal dolore che inconsapevolmente suscitano. L’insofferenza prude ad esempio al ciabattare strascicato di una nonna che tanto più inquieta quanto più se ne ama e odia la fragilità (pur in contesto diverso, mi ricorre il “cuore appena franto dal suo bene” di A. Gatto, ma ben più esplicite nella psicologia dei rapporti emergono le letture della poesia femminile americana di Anne Sexton). Questa prima sezione restituisce l’inconfessabile forma scavata nell’amore da altri sentimenti, anche quelli che si vorrebbero fuggire o reprimere e che tuttavia si impongono, come il vincolo del buonumore nelle feste comandate che nessuno può più concepire come gioiose (Persiane lame di luce / tagliavano la gola alla domenica / l’arrosto tormentava l’aria / con la sua pretesa di festa).