L’ira notturna di Penelope – recensione di Maria Consiglia Alvino su ExLibris20

La poesia, dal greco poiesis, è creazione. Di immagini e di idee, di sensazioni ed emozioni, attraverso la parola. La poesia di Antonella Sica è fedele a questo senso originario del termine, in quanto sa creare immagini che restano potentemente impresse nella mente del lettore e lo interrogano a fondo, per molto tempo dopo la lettura.

È una poesia della visione, a tratti quasi cinematografica, per l’accuratezza della descrizione dei correlativi oggettivi che popolano di significati lo spazio narrato, vissuto dall’io lirico. Dico vissuto, perché leggendo L’ira notturna di Penelope, non si ha mai la sensazione di essere a contatto con pose e finzioni letterarie; ma si sperimenta un’empatia profonda con l’autrice. Ciò accade perché Antonella Sica possiede una scrittura che rimane nel corso della silloge sempre fedele al “manifesto di poetica”, proclamato a conclusione, quasi a suggellare un percorso, forse un patto, intessuto con il lettore sin dall’inizio: “Le mie parole sono semi custodi / dei germogli della terra di dentro / sbocciano sul corpo nudo / nella luce e nel buio del vissuto. / Per questo non posso dar voce / a un dolore che non conosco: / per pudore, per rispetto / per non trovare un giorno in mezzo al petto, / un mazzo di fiori di plastica rossi / né vivi né morti” (p. 69).

Forse proprio perché la sua cifra è l’autenticità, quella di Antonella Sica è anche una poesia dell’ossimoro. Perché la realtà è complessa e contraddittoria, ed essere donna è complesso e contraddittorio. Significa avere in sé la ciclicità della natura, propria dell’acqua, delle maree, della luna (non a caso simboli densamente presenti nel libro), la capacità di dare vita, di “dare alla luce”, e insieme il sentimento costante della morte. La tensione a rendere la contraddittorietà dell’io, della condizione femminile, della realtà tutta, è evidente sin dal titolo. Quando pensiamo all’ira omerica, pensiamo per antonomasia all’ira di Achille. Quando pensiamo a Penelope, le attribuiamo i luoghi comuni della pazienza e della fedeltà; la immaginiamo nelle sue stanze a tessere di giorno, a disfare di notte; facciamo fatica a seguirla nella sua arte della notturna distruzione, nelle trame della paura, del nascondimento, della rabbia, dello scoramento che pure deve aver provato.

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Antonella Sica e “L’ira notturna di Penelope” – Giuseppe Vetromile su Transiti Poetici

Indubbiamente, la figura mitologica di Penelope ha influito e influisce in modo significativo sulla creatività e sulla produzione di tanti poeti e letterati, come pure, del resto, quella di Ulisse. Il simbolo della donna paziente che attende il ritorno dello sposo, prendendosi cura della famiglia e della casa in una situazione precaria e delicata, è un modello esemplare e recupera in modo ottimale il senso della dignità femminile, della sua centralità e importanza nella vita familiare e sociale. I poeti sono attratti da questo simbolo e ne fanno in molti casi riferimento dotto e illuminato.
Così, sulla falsariga della vicenda di Penelope a tutti noi nota, la moglie paziente, scaltra e determinata che tesse la sua tela di giorno e la disfa di notte in un interminabile lavorio di mantenimento dello status quo, al fine di rimandare il più possibile la sua decisione finale, la nostra autrice Antonella Sica in L’ira notturna di Penelope, raccolta di poesie recentemente pubblicata da Prospero Editore, emula lo spirito e l’intelligenza femminile e, in definitiva, umana, nel mantenere una sorta di equilibrio, uno stato di attesa “vigile” nell’affrontare la quotidianità e impostando le proprie aspettative future.
E dunque cosa si può ulteriormente notare, leggendo i bellissimi e significativi testi di questa raccolta? Presumo, essenzialmente, l’idea di incompiutezza, soprattutto nella vita di tutti i giorni, un senso di inarrivabilità quasi asintotica: “Ogni giorno con pazienza / disfo un punto combattendo / l’ira notturna di Penelope / tremando il dubbio se qualcuno / ancora sotto respira.” Si tratta evidentemente della consapevolezza che non sarà mai raggiungibile una pienezza di vita, una soddisfazione o meglio una realizzazione completa del senso dell’esistenza, e la nostra autrice lo esprime con grande valore poetico, ma anche filosofico, quando fa trapelare questo sentimento di precarietà, di disagio spirituale che investe anche l’ambito fisico e psicologico. Una continua tensione alla luminosità e alla pienezza di una vita che dia senso al tutto! Ed è perciò che il lavorio continuo, nottetempo, della trama vitale comporta una misura di rabbia, che è ira quasi repressa, addomesticata e gestita quasi a voler dare maggiore impeto e forza, energia rinnovante, a proseguire.
Come sempre, quando la poesia è davvero alta, come lo è senz’altro quella di Antonella Sica, è lo spessore della parola la caratteristica essenziale, capace di esprimere l’idea di fondo dell’autore, riuscendo con i suoi versi a dire molto di più del narrato, grazie agli echi, ai rimandi, alle allusioni, ai simboli che ampliano i confini poetici ad orizzonti altri, concentrici, proprio come le onde circolari in uno specchio d’acqua generate dal lancio di un sasso…

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6 aprile 2022 – presentazione di L’ira notturna di Penelope al Sivori Bistrot di Genova

 

Il 6 aprile 2022 alle ore 18.00 nello splendido cortile del Sivori Bistrot presenterò la mia ultima raccolta di poesie L’ira notturna di Penelope (Prospero Editore, 2022) che ha vinto prima della pubblicazione il Premio come Miglior Silloge al XX° Premio di Scrittura Femminile “Il Paese delle donne”. Animeranno l’incontro la scrittrice Antonella Grandicelli e la poetessa Donatella Bisutti, che ha curato la prefazione del volume. Proprio Bisutti, notando come la frequente ambientazione in “interni” rimandi a Emily Dickinson per una ricerca raffigurata nella “stanza” così cara a Jane Austen, scrive: «I versi di Antonella Sica si rivelano […] essere soprattutto un’esplorazione in chiave anche mitica e simbolica del Femminile», e conclude: «Accettazione e silenzio sembrano il punto di arrivo di questa scrittura di esplorazione esistenziale, punto di arrivo insieme della vita e del linguaggio».

Ingresso libero fino a esaurimento posti. Aperitivo a 7 euro.

 

L’ira notturna di Penelope – nota di lettura di Sergio Daniele Donati su Le parole di Fedro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(…) Ogni giorno con pazienza
disfo un punto combattendo
l’ira notturna di Penelope
tremando il dubbio se qualcuno
ancora sotto respira. (…)

(tratto da “L’ira notturna di Penelope” 
che da titolo alla silloge)

Quella di Antonella Sica è una scrittura che, prima ancora di stimolare la lettura, impone una pausa;  la pausa che è prima di ogni parola. 
In quella pausa, appena dopo aver scorso il titolo della silloge, si insinua un dubbio, una crepa che ci impone di rivedere le nostre solari visioni sul mito.
Ché di ire maschili la guerra di Troia ci ha riempito le orecchie, e sono ire declinate al maschile e funeste.
Già il titolo, dunque, ci porta in un mondo sotterraneo, in cui l’ira e tante altre sfumature emozionali, vestono i panni del femminile, delle penombre feconde di cui troppo spesso ignoriamo la fertile natura di sorgente.
L’autrice sembra invitarci a disfarci di punti di falsa coscienza, di consapevolezza artefattae ci conduce poi  con delicata risolutezza verso una luce diversa, diafana.
Per questo la pausa nella scrittura di Antonella Sica è centrale, ché la descrizione della pulsione non è mai fine a se stessa; serva a condurre in un altrove dove è possibile intuire un senso profondo del nostro sentire.
Così nell’esempio sopra citato, l’ira notturna di Penelope, ci conduce verso un dubbio che dà tremore; un’ira combattuta dalla tenacia ma che forse è proprio essa stessa la chiave di comprensione della necessità di fermarsi ad osservare.

 

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L’ira notturna di Penelope su Poesia del nostro tempo – lettura di Silvia Rosa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla prefazione di Donatella Bisutti

Leggendo i componimenti iniziali di questa nuova raccolta di Antonella Sica […] sembra di trovarsi davanti a una poesia ambientata nel quotidiano, e soprattutto a una poesia di “interni”, come molte poesie di Emily Dickinson, una poesia in cui, come è stato osservato, si accampano gli oggetti, di cui tuttavia subito si sospetta la valenza simbolica. Ma più si procede nella lettura, più questo scenario di “interni” si sfonda e lascia spazio a un “esterno” di dimensione cosmica: anche se in una delle ultime poesie della raccolta riappare un interno condominiale abitato da un televisore, dove in una cucina in disordine una donna si affaccenda “in ciabatte”, intorno a questa apparente banalità “trema la corolla nera del mondo”. L’esterno dunque, “impaziente di morte”, irrompe nei versi trascinando con sé, come in una piena, passione disperazione e abbandono, a smentire quella iniziale volontà dell’Autrice di mantenere una tensione governata e controllata, quella enunciata in uno dei testi iniziali, Fame: “Ho lasciato sempre/ qualcosa nel piatto/ pur avendo ancora fame”, una volontà che si propone di opporsi a quel pazzo desiderio di libertà, di esperienza e di avventura che la spingerebbe addirittura a “mangiare erba”, farsi cioè libera creatura soltanto animale. Più si procede dunque nella lettura, più ci si rende conto del forte valore ossimorico del titolo di questa silloge, che suona come una sfida. Esso riunisce in una figura del Mito, Penelope, come due lembi di quella tela di continuo tessuta e disfatta per essere rifatta di nuovo, la pazienza e l’ira, la prima retaggio atavico del femminile, la seconda simbolo dell’ardua lotta per coniugare quel femminile in un’accezione nuova. Accettazione e silenzio sembrano il punto di arrivo di questa scrittura di esplorazione esistenziale, punto d’arrivo insieme della vita e del linguaggio. Linguaggio che in questi testi appare ricco di spezzature, scheggiato e fortemente analogico, spesso in modo spiazzante, in continua spola fra un quasi minimalismo del quotidiano e un piano simbolico, fra interiorità e realtà esterna, fra profondità psichica e verticalità di un cielo abitato da luna, sole, nuvole, vento, e anche fra un linguaggio “alto” e un linguaggio “basso”. […]

da L’ira notturna di Penelope (Prospero Editore 2022)

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L’ira notturna di Penelope – nota di lettura di Franca Alaimo

L’innesto del mito nella poesia di Antonella Sica si raggruma in pochi, ma vitalissimi riferimenti: Penelope da una parte e la sua tela cucita e scucita quale strumento d’inganno e insieme di riscatto e di autodecisione; e dall’altra il cavallo di legno, che rimanda ad Ulisse, prototipo di astuzia e di dominio maschile.

L’ira di Penelope richiama, quindi, tanto un desiderio di libertà dalla condizione femminile tutta intessuta di stereotipi, quanto -e credo abbia un peso maggiore- (col fare tornare alla mente il verso iniziale dell’Iliade in cui si individua nell’ira funesta dell’eroe Achille la causa degli “infiniti lutti” per gli Achei) la scoperta e la volontà di rispetto dell’elemento maschile nella propria natura femminile: quella complementarietà Sole-Luna, evocata in uno dei testi della silloge.
Così la stanza, che è un altro dei nuclei concettuali di questa scrittura, se da una parte sta a significare la prigionia all’interno dello spazio domestico tra faccende e riti quotidiani, dall’altra sembra alludere a quella “stanza tutta per sé” reclamata da Virginia Woolf, spazio di autoaffermazione femminile attraverso la creatività.
In altre parole la silloge di Antonella Sica segna un itinerario di consapevolezza attraverso cinque sezioni-tappe, che indagano, dopo un momento di rottura, le relazioni fra l’autrice e gli altri, come donna, madre, figlia; e fra sé stessa e l’atto del poetare, percepito come una rielaborazione del proprio vissuto, ché inutile sarebbe raccontare ciò che non ci appartiene, attraverso una sapiente collocazione delle parole-immagini, come in un’operazione di montaggio cinematografico, all’interno di un’inesauribile dinamismo.
Ricorrenti sono anche nei versi della silloge due elementi naturali: il mare, simbolo del viaggio all’interno delle proprie acque interiori, ma anche verso un oltre sconosciuto, e il vento simbolo del sovvertimento del disordine anche fecondo, ché trasporta semi e spore in luoghi nuovi. Tra quest’ultimi c’è anche la dimensione del silenzio, come consapevolezza di una pienezza della comprensione che non ha più bisogno di una ricerca attraverso la parola, per cui il desiderio di dissolvimento a cui pure si accenna, non coincide con la distruzione del proprio sé, ma con la più ampia realizzazione coincidente con il senso più profondo e intimo dell’essere e dell’esserci.

Franca Alaimo

Sono il buio inconosciuto che sta dietro… nota a un inedito di Antonella Sica – di Emanuela Sica

Poesia scelta: Sono il buio inconosciuto che sta dietro
Autrice: Antonella Sica

*

Sono il buio inconosciuto che sta dietro,
calore e latte, luce di pianto.

Ho tenuto bordo ai tuoi passi
conservato i sassi
che portavi in dono.

Sarò per te memoria, mai dimora
ma soglia scalza, rovo di mora.

A cura di Emanuela Sica

È un richiamo ancestrale, eppure concretamente florido di vita, quell’incipit che, sin dal verbo “sono”, ha la capacità immediata, e senza artificiose sovrastrutture, di generare non soltanto un “ausiliare” ma soprattutto far lievitare quella “consistenza d’essenza vitale” che permea la lirica di una fulminea capacità attrattiva, richiamando “l’essere” che prende “forme di calore” e mai si annulla nel buio. Anzi, nell’assenza di luce “inconosciuta”, quindi ignorata dalla vita che si muove e prova a riemerge da quel “sono”, germoglia prima il corpo e poi l’anima di chi, partendo da un incontro di due “diversità” origina “unità”. Da quella velocissima duplicazione d’istinti primordiali e cellule si costruisce una dimensione evocativa e sino a tal punto esplorativa in grado di uscire “fuori” a guardare il mondo con nuovi e più luminosi occhi.
Riesco quasi a sentirlo quel canto, per alcuni versi sibillino eppure chiaro e senza sbavature. La voce è quella di una donna che, dalla sua centralità uterina, dal suo passato generante, “mette al mondo” o “a dimora” quel “singolare” assioma di carnalità e anima che portava in grembo, in quella culla di sangue e muscoli, prima stretti e poi tirati sino all’osso, di nutrimento gestante, di soavi aspirazioni materne, di sogni e lucciole a primavera. E da quella “generazione”, dalla coniugazione al presente di una vita in fieri ed evoluzione, si lascia andare alla crasi delle paure che si slacciano al tocco trasparente della luce e al pianto nel momento esatto in cui la donna diventa madre. Con la “nascita” non inizia il suo viaggio nell’ossigeno del mondo il “partorito” ma viene catapultata nella realtà dei suoi giorni a venire anche la “partoriente” che, in quel momento, prende il nome di “madre” nella società, pur se madre lo era anche prima… nell’attesa.

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L’Ira notturna di Penelope. Nota di Lettura di Roberto Corsi

L’arioso titolo ideato da Antonella Sica idealmente congiunge “L’ira funesta” da cui prende le mosse l’Iliade con un personaggio chiave dell’Odissea; in mezzo, la notte in cui merinianamente “i poeti lavorano”, ma che è anche teatro d’ira. Verso cosa? Verso la stessa Penelope, Archetipo di astuzia e pazienza, ma anche di fedeltà coniugale (luna, “luce riflessa”)? Verso “il dovere della stanza” che preclude i tramonti? Verso il “riscatto della carenza” che si cerca nottetempo mentre si scuce la tela-scorza matrilineare? Questa raccolta, caleidoscopio di vedute, carpe diem, ironia, ferite sanguinolente, ricordi, affetti, massime sapienziali (molto di ciò ben colto nella prefazione di Donatella Bisutti, cui rimando), gioca un potentissimo asso confessionale in prima mano, lungo tutta la sezione eponima – che giudico la migliore, traendone tre liriche. E mediante la quale mi interessa esemplificare come l’A., per tutto il libro, ami rima, allitterazione, paronomasia, ripetizione… ma con abilità di eviscerarle da qualsiasi banalità, persino nell’arengo cuore/amore, quasi affine al fiore/amore, rima “più antica difficile del mondo” per Saba. Lo fa agendo per es. sui costituenti ontologici: “Eco nel silenzio di sé stessa”, dopo un vortice figurale, prende una consistenza impossibile come “Eco nel vuoto”; parimenti, nella splendida chiusa anti-Parmenidea di Dissoluzione n. 2, assistiamo a un non essere che attraverso l’abdicazione alla propria passività nasce a quel che è.

L’ira notturna di Penelope

Pelle su pelle cucita
troppo stretta ai fianchi,
sconosciuta addosso
che vive la mia vita; che rimane
quando vorrei andare via
che non prende, chiede
sempre permesso e mi consuma
di rabbia dietro, dal posto
già assegnato nella retrovia.
Cucita addosso la pelle
di mia madre, di mia nonna
ricamata come un corredo
a riscatto della carenza.

Ogni giorno con pazienza
disfo un punto combattendo
l’ira notturna di Penelope
tremando il dubbio se qualcuno
ancora sotto respira.

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Eco

Non è amore
il batticuore del tuo cuore
affamato dal vuoto d’amore
che batte Eco nel silenzio
di sé stessa. Non è amore
il tuo sguardo che inghiotte
nero pozzo secco ogni luce.
Non è amore la questione
di vita o di morte del cuore
se l’amato distoglie lo sguardo
dal tuo sguardo che si spegne
senza l’altro. Non è amore
ma solo Eco nel vuoto
affamato d’amore.

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Dissoluzione n.2

Sola splendo d’ogni ferita il sole
che spacca i semi nella culla del sangue;
radici tenaci di gramigna corrono
sotto la pelle, si spezzano alla luce
i bulbi di ranuncoli azzurri
nel cavo degli occhi, sbocciano
ai piedi papaveri dai morbidi steli
coi petali curvi, la gialla calendula
ricama le mani lenite e il cuore è terra
che batte alla pioggia che cade.
Non essere. Non essere più
se non qualcosa che si lascia essere
ciò che è.

 

“L’ira notturna di Penelope”: una nota di lettura di Carlo Giacobbi su Versante Ripido

Con il corpus poetico in commento, Antonella Sica, attingendo ad un immaginario che eleva a correlativi oggettivi gli archetipi del mito, sviluppa, per il tramite d’un fil rouge che lega i topics rinvenibili nella linea diegetica, la sua peculiare ontologia dell’essere-donna. La Nostra, dunque, consegna al lettore una poetica fortemente declinata al femminile, non tanto o comunque non solo per agitare in forma rivendicativa la vexata quaestio del dominio del maschile sul mondo, quanto per invenire i tratti costitutivi di un’identità, appunto femminile, di cui fare cognitio ex se, al di là, quindi, della retorica giustapposizione uomo-donna.

Certo, nella prima sezione dell’opera, titolata <<L’ira notturna di Penelope>>, la Sica non cela il suo velato J’accuse nei confronti d’un sistema di pensiero che ancora oggi avalla il ruolo subalterno della donna (cfr. p. 35, <<ho vissuto già / cinquanta giorni da pecora / ruggendo come un leone>>). Ma la nota di biasimo, nell’intentio dell’autrice, è funzionale all’acquisizione d’una consapevolezza da cui solo può principiare ogni forma di affrancamento e, quindi, di recuperabile libertà. È quanto si evince dalla lirica incipitaria di p. 2 che dà il titolo all’opera, ove <<l’ira>> scaturisce dalla percezione di avere addosso un habitus che si riconosce posticcio, non proprio, ma di cui la poetessa è consegnataria avendolo ricevuto – quasi in dote – da <<mia madre, (…) mia nonna>> (cfr. ibidem), id est per traditio, a guisa di <<Pelle su pelle cucita / troppo stretta ai fianchi / (…) / che vive la mia vita>> (cfr. ibidem); habitus da disfare <<Ogni giorno con pazienza>> (cfr. ibidem), da scucire quotidie punto per punto.

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